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Ora invece deponete anche voi tutte queste cose
Se dunque siete stati risuscitati con Cristo, cercate le cose di lassù, dove Cristo è seduto alla destra di Dio.
Aspirate alle cose di lassù, non a quelle che sono sulla terra; poiché voi moriste e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio.
Quando Cristo, la vita vostra, sarà manifestato, allora anche voi sarete con lui manifestati in gloria.
Fate dunque morire ciò che in voi è terreno: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e la cupidigia che è idolatria.
Per queste cose viene l’ira di Dio {sugli uomini ribelli}. E così camminaste un tempo anche voi, quando vivevate in esse.
Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, collera, malignità, calunnia; e non vi escano di bocca parole oscene.
Non mentite gli uni agli altri, perché vi siete spogliati dell’uomo vecchio con le sue opere e vi siete rivestiti del nuovo,
che si va rinnovando in conoscenza a immagine di colui che l’ha creato.
Qui non c’è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti.
Vestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di benevolenza, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza.
Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi.
Al di sopra di tutte queste cose vestitevi dell’amore che è il vincolo della perfezione.
E la pace di Cristo, alla quale siete stati chiamati per essere un solo corpo, regni nei vostri cuori; e siate riconoscenti.
Colossesi 3, 1-15
Qual è il nostro vestito? L’immagine che vogliamo trasmettere agli altri?
La nostra cultura ci ha insegnato che l’abito ha una funzione sociale e che la nostra verità e identità possono restare nascoste. Le immagini, con cui ci presentiamo, possono essere un inganno e persino un autoinganno, per esempio sui social e sul web. Qui l’apostolo invita, invece, a non mentire e a rivestirci di Cristo. Una sorta di coincidenza tra il modo in cui ci presentiamo e ciò che siamo. In particolare, l’apostolo – che appartiene alla generazione post-paolina – si concentra sulla parola malata. La parola che ferisce nelle relazioni, calunnia, malignità oscenità, menzogna.
Tutto ciò, di cui purtroppo si dà spettacolo oggi sulla scena pubblica, un linguaggio dell’odio e del disprezzo che mai considera la vita dal punto di vista dell’altro: delle donne rese oggetto di controllo e violenza, delle persone omosessuali cancellate nella loro capacità di amare, degli stranieri classificati in base al colore della pelle.
Il linguaggio razzista, sessista prende sempre più spazio e viene usato da chi ha il potere. Un tempo il mugugno o il linguaggio osceno erano carichi di un senso di protesta da parte dei lavoratori più sfruttati verso i potenti. Ora, invece, questo uso della parola per ferire e oltraggiare viene dai potenti contro i deboli.
E’ per questo che fioriscono leggi per dettare ciò che si può o non si può dire, come la legge contro chi nega a parole la Shoà – seminatori di odio e di razzismo.
L’apostolo non propone una legge o una sanzione, ma un radicamento in Cristo, che passa attraverso diverse tappe.
La prima è l’essere chiamati a una stessa appartenenza. Un solo corpo, una sola umanità – siamo stati chiamati a questo con il battesimo; siamo stati accolti nel grande popolo di Dio, e questo senso di appartenenza e di fiducia si scioglie in noi in riconoscenza.
Allora, perché guardiamo all’altro che con noi appartiene allo stesso popolo di Dio con diffidenza e disprezzo? Ci sentiamo più degni di lui, di lei?
L’accoglienza delle differenze fa parte di questa comune appartenenza, e qui l’apostolo è chiaro (v. 11).
A Colossi tutte queste popolazioni si mescolavano, formando una città cosmopolita dove certo non mancavano le tensioni.
La comunità cristiana era allora un luogo, da cui poteva partire un modo diverso di affrontare queste differenze culturali ed etniche. Un luogo di pace da irraggiare intorno non come esempio di civiltà perfetto, ma perché lì abita Cristo.
E questo Cristo, che è tutto in tutti, fa sì che in ognuno estraneo, lontano, differente, si possa riconoscere lui, il Signore. Sì, proprio nella persona, che non sopporto o mi è indifferente, proprio anche lì abita il Cristo, come in me.
Ma se l’apostolo ci invita ad apparire ciò che siamo, individui perdonati e capaci di perdono, di riconciliazione, ci invita a non mentire a noi stessi prima che agli altri.
Al tempo stesso ci fa comprendere che esiste una dimensione di noi nascosta in Cristo.
E’ ciò che siamo alla luce della resurrezione. Qualcosa che ancora non conosciamo, sebbene ci sia stata annunciata. La nostra vita è radicata nella resurrezione di Cristo.
E siccome non ne sappiamo nulla, non ne possiamo dire nulla di quella nuova creazione dell’umano riconciliato con Dio, siamo invitati a porci in ascolto con umiltà. La nostra vita è nascosta, protetta, radicata nella resurrezione.
E’ là, e non la possiamo ancora vivere; ma è anche qua e la dobbiamo praticare.
L’amore, il perdono, la pazienza, l’ascolto, la verità: tutte modalità per mettere in pratica questo nostro radicamento in Cristo.
L’apostolo parla di un movimento, una dinamica: l’uomo nuovo si va rinnovando. Non è tutto già fatto. Ma nella capacità di incontrare e accogliere l’altro nella sua scomoda diversità, nella verità su noi stessi, ecco che qualcosa della nostra vita nascosta in Cristo si rivela.
E camminando nella verità, ne impariamo le ricchezze, vi cresciamo nell’amore.
Pastora Letizia Tomassone Sermone di domenica 12 giugno 2016 Chiesa Evangelica Valdese di Firenze
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